Fin
quasi al 1600, i napoletani adottavano un altro sistema per
provare a riempirsi la pancia: mangiavano verdura.
Lo
riferisce l’Abate Galiani, che nel 1777 scriveva nel suo
“Vocabolario”, alla voce verdura: “Fu tanta la passione
che per la
foglia cappuccia ebbero i napoletani del secolo
passato, che ne acquistarono il nome di mangiafoglia. Molti
celebrarono le lodi della foglia. Ora restano eclissate dai
maccheroni”.
Nonostante
Napoli si trovasse (come oggi, del resto) sul mare, a
quei tempi non si parlava certo di dieta mediterranea. Quella
dei napoletani del XVI secolo era una dieta del cavolo: tale
era
infatti la “foglia cappuccia” di cui parla
Ferdinando Galiani. Costava poco, e si coltivava facilmente
nei mille orti della città e del contado. Insomma, si andava
avanti a pane e ortaggi.
Di
carne se ne vedeva poca. Il grano duro non si produceva, nel
napoletano: la semola veniva importata dalla Sicilia e dalla
Puglia. Tanto (poca) che nei periodi di magra (quindi
praticamente sempre) le autorità vietavano la produzione di
pasta. E’ del 1509 un editto del Vicerè di Napoli, che
ordinava ai pastai “di non confezionare maccarune, trie,
vermicelli, excepto in caso de necessità de’ malati”,
quando “la farina saglie [aumenta di prezzo, NdR] per
guerra, carestie et altra indisposizione di stagione….”
Insomma,
la pasta
rimase a lungo un alimento costoso, e perciò destinato
solo alla tavola dei ricchi. Quello che consentì ai
napoletani di passare dal cavolo alla pasta: di essere
promossi, con soddisfazione, da mangiafoglia a
mangiamaccheroni, fu la possibilità di produrre pasta più a
buon mercato.
Le
nuove tecnologie quali la gramola e il torchio meccanico
misero un po’ per volta la pasta alla portata di molte
tasche.
Questo
accadeva ai primi del seicento. Poco più tardi, nel 1647, il
consumo di pasta sarebbe diventato una specie di marchio di
appartenenza. Durante la rivolta guidata da Tomaso Aniello,
meglio noto come Masaniello,
la plebe napoletana: i “lazzari” ( dallo spagnolo
“lazaro”, cencioso)
elessero a loro cibo i maccheroni.
Masaniello
finì male, i maccheroni no. I lazzari, i sottoproletari
urbani che affollavano le vie della città sperando di mettere
insieme il pranzo con la cena, continuarono a mangiarne.
Più
o meno in
quegli anni sorsero a Napoli (e dintorni) i primi
pastifici artigianali. Destinati a diventare sempre più
grandi e numerosi, e sempre meno artigianali, per via della
pasta
che producevano. Molto apprezzata dal pubblico
nonostante fosse fatta coi piedi. O forse proprio per questo.
Un
modo di dire? No. Un
modo (sciagurato) di fare.
Nelle
altre parti d’Italia la “rimiscelazione” di acqua e
semola
veniva effettuata a mano, in madie di legno. Invece i
napoletani, sempre speciali, si mettevano in piedi nella
madia, e con le estremità inferiori “lavoravano”
l’impasto. Certe volte tra piedi e pasta veniva messo un
telo, ma non c’era da giurarci.
Quando,
nel 1833, Ferdinando II di Borbone, Re di Napoli, lo venne a
sapere, gli passò l’appetito.
Ma poiché presto gli tornò, diede ordine
all’ingegnere Cesare Spadaccini di progettare un metodo più
igienico per fare la pasta.
Costui
ideò un marchingegno detto “l’uomo di bronzo”, in grado
di imitare – per quanto possibile – i movimenti dei piedi
umani. Ma (forse perché costava troppo) il progetto non prese
piede.
Cose
che succedono solo a Napoli. Insieme ad altre; come
l’invenzione della gramola a coltelli, una macchina migliore
della gramola a stanga usata fino ad allora.
Quest’innovazione
tecnologica fece sorgere dei veri pastifici industriali. Il
primo di essi nacque
a Torre Annunziata, a un tiro di schioppo da Napoli,
per iniziativa di pastai amalfitani.
Ma
il progresso non si ferma. Nel 1904 arrivò la gramola a rulli
conici, che relegò i coltelli della sorella maggiore in
soffitta. I rulli schiacciavano l’impasto in modo uniforme,
il che era molto vantaggioso. I pastifici l’impiegarono fino
al 1933, anno in cui i fratelli Braibanti inventarono la
pressa continua.
Le
tecnologie cambiavano, ma la pasta napoletana restava la
migliore del mondo. Gragnano e Torre Annunziata si
guadagnarono la celebrità per la perfetta essiccazione dei
loro prodotti. Merito della cultura nel settore, e della
natura; i venti secchi e asciutti che spirano lungo quelle
coste facevano la loro parte.
Se
il clima era mite, il pastaio napoletano era mitico. Prima
esponeva la pasta fresca di fabbricazione al sole, in grandi
cortili, o su terrazze ventose. Poi la faceva
“rinvenire” al freddo, in locali leggermente umidi
(cantine), in modo che non si spaccasse. Alla
fine passava all’essiccazione vera e propria,
mediante correnti d’aria generate dall’apertura e
dalla chiusura di grandi finestre.
Di
igrometri, all’epoca, non ce n’erano, per cui il
capo-pastaio doveva essere un po’ meteorologo, e un po’
indovino. Quando, tra il 1903 e il 1912, arrivarono le
macchine per l’essiccazione in ambienti chiusi, la poesia
fece un passo indietro. Ma, a onor del vero, la qualità della
pasta napoletana non ne risentì.