Un
buon piatto di pasta, adeguatamente condito, è una poesia.
E’ un’arte raffinata, sottile. Non stupisce perciò che
questo cibo abbia incrociato la propria strada con quella di
poeti, di scrittori, e perfino di uomini politici.
Orazio
celebrò le lagane, antenate delle lasagne. I maccheroni,
unici nel loro genere, diedero vita molto tempo dopo
addirittura ad un genere letterario: la poesia maccheronica.
Impasto (non a caso) di cultura alta e bassa, che fa il verso
(e anche questo non è un caso) al latino e all’italiano
dotto, mescolandoli in una lingua nuova ed improbabile.
Il
maggior esponente di questa tradizione goliardica fu Merlin
Cocai, al secolo Teofilo Folengo, mantovano (1491-1544),
autore delle “Maccaronee” e di tanto altro.
Nella
visione di Folengo, le Muse godono “di cento caldaie che
mandano il loro fumo verso le nubi, piene di caciottine,
maccheroni e lasagne”.
Un
altro grande gaudente, Giacomo Casanova,
compose a Chioggia, nel 1734, un sonetto in onore dei
maccheroni. Pare che in quell’occasione se ne mangiò tanti,
da essere incoronato Principe dei maccheroni.
L’opera
più importante sull’argomento fu però quella di Antonio
Viviani, napoletano, poeta e commediografo di ottima pasta.
“Li maccheroni di Napoli” è un poema giocoso, ed è
interessante anche perché in esso si trova per la prima volta
il termine “spaghetti”. E sono illustrate le varie fasi
della lavorazione della pasta.
La
pasta, per la verità, ieri come oggi, la mangiavano tutti:
belli e brutti, incliti e dotti.
Brutto
e dotto era di certo Giacomo Leopardi, che, non troppo versato
nei piaceri della carne, probabilmente non
si dedicava nemmeno a quelli della pasta. Lo si può
immaginare dall’ironia con la quale, nella poesia “I nuovi
credenti” del 1835, descrive il troppo amore del popolo
napoletano “de’ maccheroni suoi”.
Gli
rispose (inevitabilmente, per le rime) il napoletano Gennaro
Quaranta, con una poesia dal titolo “Maccheronata”, in cui
si legge, tra l’altro: “Oh, mai non rise quel tuo labbro
arsiccio/ né gli occhi tuoi lucenti ed incavati/ perché…non
adoravi i maltagliati,/ le frittatine all’uovo ed il
pasticcio!”
Oltre
che poesia, la pasta è
musica. Ben lo sapeva Gioachino Rossini, che amava
definirsi “Pianista di terza classe, ma primo gastronomo
dell’universo”.
Cucinava
bene, Rossini. La sua specialità erano i bucatini al
fois-gras, che farciva con una siringa d’argento e avorio
fatta costruire appositamanente. La pasta gli piaceva tanto,
che se ne faceva mandare delle intere casse da Napoli, città
che conosceva bene. Nel 1859, lamentandosi con un amico per il
ritardo di una di queste spedizioni, arrivò a firmarsi
“Gioachino Rossini, Senza Maccheroni”.
Per
il suo potere di distendere gli animi, alla pasta dovrebbe
essere assegnato il
Nobel per la Pace. E non basta: nella sua ormai lunga
storia la pasta è stata utilizzata addirittura come metafora
politica.
Parigi,
poco prima del 1860. L’Imperatrice Eugenia dà una festa.
Tra gli invitati c’è l’Ambasciatore del Regno di Piemonte
(l’Italia è ancora da venire, ma non tarderà molto)
Costantino Nigra.
Per
far arrivare, un messaggio al suo boss (il Conte di Cavour),
l’Imperatrice ha dato disposizioni perchè venga
mostrata agli ospiti un divertente siparietto.
Ad
un attore, grossolanamente truccato da Cavour,
vengono servite delle pietanze. Ciascuna delle quali
fortemente allusive: gorgonzola e stracchino (la Lombardia),
parmigiano (il Ducato di parma), e mortadella (l’Emilia).
L’uomo
mangia tutto (leggi: questi territori sono già stati
annessi). A fine
pasto arrivano delle belle arance siciliane, e anche
queste finiscono divorate. A questo punto giunge sulla tavola
l’ultima portata: un gigantesco piato di maccheroni. Mangerà
anche questi?
No.
Il
falso Cavour alza le mani e dice: “Per oggi basta.
Conservatemeli per domani….” Sipario, applausi.
Nigra
si annota tutto mentalmente, e il giorno dopo riferisce a
Cavour. Quello vero. Il quale capisce perfettamente che la
pantomima significa “la Sicilia prendetevela pure; ma
Napoli, no.”
Rimanendo
nel codice, il Conte di Cavour fa arrivare allora
all’Imperatrice questa risposta:”I maccheroni non sono
ancora cotti. Quanto alle arance che stanno già sulla nostra
tavola, siamo ben decisi a mangiarle”.
E
così avviene. Quando sarà
pronto ad annettersi anche il Regno di Napoli, Cavour
non si scorderà della metaforica pasta, scrivendo: “I
maccheroni sono cotti, e noi li mangeremo”.
Sarà
per loro forma, ma i maccheroni (nella variante
“spaghetti”), continuano a legarsi strettamente con la
politica.
Fu
indubbiamente per motivi politici che nel…..Filippo Tommaso
Marinetti, nel Manifesto della cucina futurista del 1830, si
scagliò contro “la pastasciutta, assurda religione
gastronomica italiana, simbolo passatista di pesantezza, di
ponderatezza, di tronfiezza”.
Se
però, oltre a scrivere il manifesto del Futurismo, avesse
letto nel
proprio futuro, avrebbe saputo che qualche mese dopo
sarebbe stato sorpreso a Milano nell’atto di divorare un
grosso piatto di spaghetti.
A
questo punto giocò d’anticipo, scrivendo di sé:
“Marinetti dice basta/ messa al bando sia la pasta./ Poi si
scopre Marinetti/ che divora gli spaghetti”.
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