Antenate
delle lasagne, le làgane (dal greco laganon: sfoglia di pasta
tagliata a strisce) a quei tempi si mangiavano con tutto: con
la carne, il pesce, le uova, e si mettevano pure nelle
minestre, per irrobustirle. Nel Sud d’Italia, le lagane
erano piuttosto note. Ma si trattava comunque di un prodotto a
diffusione locale, e di pronto consumo; come dire,
cotto/mangiato.
Non
si può parlare di diffusione su larga scala della pasta fino
a che non si trovò il modo di conservarla a lungo. Per
mettere a punto una valida tecnica di essiccazione bisognò
aspettare fino al XII secolo. La pasta veniva prima esposta al
sole, perché perdesse la maggior parte dell’umidità, e
poi
trasferita in ambienti chiusi, riscaldati debolmente da
bracieri, in modo da liberarsi dell’umidità residua.
Lo dice l’arabo Al-Idrisi, a conferma che gli arabi di pasta
se ne intendevano. Dal momento che, con tutta probabilità, in
Sicilia ce l’avevano portata loro.
Ormai
in grado di conservarsi a lungo, e quindi disponibile a
viaggiare, dalla Sicilia la pasta
si portò in Liguria. Spesso però ad andarci era il
solo grano duro, che veniva essiccato e lavorato a regola
d’arte sul posto, grazie al clima mite e ventilato delle
coste liguri. Il dato è certo; nel 1316 viene registrata a
Genova la presenza di tal Maria di Borgogno, “quae faciebat
lasagnas.”Proprio in quegli anni la pasta si diffuse a
macchia d’olio
(la macchia di pomodoro sarebbe arrivata molto più
tardi). Il segno di tale diffusione fu la nascita, nel 1337 a
Firenze, della prima Corporazione dei Pastai, della quale
facevano parte anche i Fornai.Col tempo la corporazioni
prendono corpo in tutt’Italia.
Nel 1571 nasce a Napoli “l’Arte dei Vermicellari”.
I genovesi rispondono quasi subito (1574) con la corporazione
dei Fidelari, che raggruppa i produttori di “fidei” (i
fidelini, una pasta lunga e filiforme) e i Formaggiari (la
pasta col formaggio c’è andata d’accordo immediatamente).
Pasta così? Macchè: nel 1605 i siciliani si ricordano
finalmente delle loro
tradizioni
pastaiole e fondano a Palermo
“La Maestranza dei Vermicellari”.Le corporazioni
proliferano quando i produttori di un certo bene sono molti, e
perciò c’è da darsi delle regole. E i produttori sono
tanti quando ci sono molti consumatori. Anche per la pasta le
cose sono andate così; già nel 1450 Maestro Martino, cuoco
del Reverendissimo Monsignor Camerlengo et patriarca de
Aquileia, pubblica una serie di ricette a base di maccheroni.
A leggerle oggi, fanno un po’ impressione: i maccheroni sono
fatti con farina e acqua, e fin qui tutto bene. Poi però
vengono cotti, in acqua o in brodo, anche per due ore! Alla
fine, il
colpo di grazia:
Maestro Martino consiglia di condirli con spezie
dolci…..
Venticinque
anni dopo, nel 1475, viene stampato il primo libro di cucina
del mondo. Si intitola “De honesta voluptate”, e ne è
autore Bartolomeo Sacchi, detto il Plàtina.E’ anche grazie
a lui che la pasta comincia a diffondersi in Francia, alla
corte di
Caterina dei Medici, facendo da traino per
gli altri prodotti della cucina rinascimentale
italiana.
Nel
1548 Cristofaro da Messisburgo, “scalco” a Ferrara, alla
corte del cardinale Ippolito d’Este, pubblica il “Libro
Novo”, un libro di cucina con molte ricette di maccheroni.
In quel periodo, alla pasta artigianale, fatta a mano, si è
affiancata la pasta “industriale”. Lo stesso Messisburgo,
nel “Liber de arte coquinaria”, cita “l’ingegno”, la
prima rudimentale trafila per produrre la pasta lunga, i
vermicelli.
In
Sicilia, dove pare già esistesse da tempo, questa macchina si
chiamava “ncegnu”, o “arbitriu”: l’impasto di semola
di grano duro e acqua veniva pressato con un pistone in un
cilindro di legno, da cui, attraverso una trafila in rame
dotata di fori rotondi, uscivano i “vermicelli”. Più
lunghi di quelli fatti a mano, che in genere non superavano la
lunghezza di un dito (da cui “piccoli vermi”).
Intanto,
molto tempo è passato. Siamo ormai alla fine del settecento.
In inglese, passato si dice “past”. E proprio in quegli
anni, la pasta la ritroviamo pure là. Come c’è arrivata?
Francia
e Inghilterra sono separate da una sola Manica. Ma la pasta
dovette rimboccarsene due, per raggiungere, dopo i francesi,
anche gli inglesi. Può darsi che le abbiano dato una mano i
piazzisti di enciclopedie porta a porta; Diderot e D’Alembert,
nella loro Encyclopedie (1779) riportano il mestiere di
“vermicelier” (vermicellaio), illustrando, con la
pignoleria che li ha resi famosi, le tecniche di lavorazione
del prodotto e gli attrezzi del mestiere.
In
Inghilterra, i “macaroni” - li chiamavano così –
diventarono simbolo di
raffinatezza. A Londra c’era perfino un “Macaroni
Club”, che pare fosse uno dei templi del dandismo.
In
America si dice che
la pasta ce l’abbia condotta Thomas Jefferson. Lo
statista li avrebbe assaggiati durante un viaggio in Italia, e
si sarebbe fatto spiegare (col tipico pragmatismo americano)
come si faceva a fabbricarseli da sé. Ma è più probabile
che la pasta sia arrivata negli States
insieme ai nostri emigranti, la cui lontananza da casa
alimentava un desiderio di vicinanza coi sapori della propria
terra. E perciò si portavano appresso in America quintalate
di spaghetti.
Pure
per gli americani, all’’inizio, i “macaroni” furono
sinonimo di bizzarria e di esotismo: il protagonista della
ballata “Yankee Doodle Dandy” se ne va in giro per la città
con un “maccarone” sul cappello, a mo’ di piuma.
Negli
USA “macaroni” è ancora sinonimo di italiano. Non è
precisamente un apprezzamento, ma gli italiani d’America ne
vanno fieri. Perché è comunque un riconoscimento della
nostra primogenitura nei confronti della pasta. OK, guys:
prendeteci pure in giro. Tanto lo sapete anche voi che (
quando dovrete decidere quali piatti togliere dalla vostra
ipercalorica dieta) gli ultimi saranno i primi.